Racconti – Finché c’è storia

7 giugno 2016

Finché c’è storia

Descarago

“Se ti tuffi da lì sei il mio eroe”.
“Ok, però poi te lo voglio sentir dire, non vale far finta di niente”.
“Dai vecchio orso, meno chiacchiere e buttati !”
Gli piace che lei lo chiama così. E dentro di sè si compiace, di non essere affatto vecchio. Non di certo nelle sue prestazioni atletiche, e non perde occasione per dimostrarlo. La verità e che è lei, ad essere così giovane.
Con una spinta elastica si stacca dalla parete di roccia, si proietta in alto, si inarca e flette all’ingiù, inabissandosi senza sollevare uno spruzzo.
“Allora?” le grida dal basso quando riemerge.
“Aspettami!”
Prende una rincorsa e gli si butta quasi addosso, tappandosi il naso con due dita.
“Un mollusco si tuffa meglio” le ridacchia in faccia appena riapre gli occhi. Ma ….non dovevi dirmi qualcosa?”
Lei per tutta risposta gli sputa acqua in faccia, mentre le sta ancora parlando.
“Prima devi raggiungermi, amore mio”.
Agile e fulminea gli scivola via dalle braccia, comincia a nuotare, leggera e veloce come un giovane delfino.
Filano via insieme,due scie bianche nella distesa azzurra.
Giungono ad uno scoglio tondo e levigato.
“Beccata!” le fa lui, prendendola per la caviglia prima che lei riesca ad aggrapparsi.
“Non vale, ti sei fatto tirare fino all’ultimo”
“E tu sei partita prima”
“Imbroglione”.
“Ladra”.
Escono dall’acqua, sgocciolanti si stendono sul caldo granito. Si accarezzano, si baciano. Le loro figure si fondono con la nuda roccia, nel dorato riverbero del sole che si abbassa all’orizzonte.
Il gomito appoggiato al finestrino, aperto nonostante l’aria umida e fredda. Picchietta il cellulare contro il volante. Il messaggio dice solo “stasera non ho la macchina, vieni tu a prendermi”.
E lui è andato, la sta aspettando fuori dalle uscite vetrate nel parcheggio dell’enorme centro commerciale. Ormai è mezzanotte, sono rimaste solo le auto di quelli che si sono fermati a lavorare fin oltre la chiusura, sparse come a caso, perse nella nebbia dello sconfinato lago di cemento.
Ripensa ai messaggi degli ultimi giorni, ai loro ultimi incontri. Non riesce a trovare nessuna nota stonata, niente che possa far presagire nulla. Nulla di immediato, per lo meno.
Un ticchettio di tacchi, e lei spunta dall’oscurità, nel cono di luce di un lampione. Elegante, fatale, come l’ha sempre vista quando esce ancora agghindata in divisa da lavoro. Nota che sottobraccio ha uno zainetto munito di piccole rotelle, che gli infonde un’ulteriore dose di inquietudine, come ogni volta che anche solo accidentalmente si imbatte in attrezzature per l’infanzia.
Lei apre la portiera posteriore e lo appoggia sul sedile, poi sale di fianco a lui, si allunga per dargli
un bacio.
“Ciao amore mio”.
“Ciao”. Non fa domande a proposito dello zainetto. Ignora totalmente cosa ci stia a fare sulla sua
macchina, ma è quasi certo che dovrebbe invece saperlo.
“E’ per mia cugina” lo precede lei.
Alla fine ho scelto questo, d’altronde ormai ci siamo”.
“Hai fatto bene, ormai ci siamo”.
Sorride, schiaccia il pulsante del’accensione.
“No, non ancora Fabri, stasera dobbiamo parlare”.
Ha impiegato così tanto, a cercare la nota stonata. Ed eccola lì, si trattava solo di attendere.
“Dobbiamo parlare? C’è l’ha ordinato il dottore?” finto non curante, finto disinvolto. Si gira per fare marcia indietro, ma lei pronta gli rischiaccia il pulsante. L’auto sobbalza, il motore si spegne.
“No caro,stasera non te la cavi così, stasera dobbiamo parlare”.”Parlare? di cosa dobbiamo
parlare? Parliamo intanto che andiamo no?”
“Parliamo qui e adesso. E giù le mani dal bottone”.
Lui si arrende. Toglie le mani dalla guida, si lascia andare indietro sul sedile.
“Ok parliamo allora. Incomincio io. Quindi non è vero che non hai la macchina. E’ solo un pretesto per ritrovarci qui fuori, invece che a casa. Hai paura di casa mia adesso?”
Ma non c’è traccia di astio nella sua voce. C’è delusione, rassegnazione. Le paure che da tempo lo tormentavano e che aveva sempre allontanato sono diventate realtà. Li, tangibile davanti a lui.
Nessuno parla. Si sente la lancetta dei secondi che avanza piano, tic tic tic tic, ne quadrante del cruscotto.
“L’ultima notte mia madre mi ha chiuso fuori di nuovo. Ho dovuto dormire ancora in macchina.
Ma tanto ci ho fatto l’abitudine, mi tengo la coperta nel bagagliaio”.
Lui sospira.
“Te l’ho già detto, torna da me quando succede”
“Certo, torno da te quando succede. Dormiamo nel tuo lettone caldo caldo. Ma intanto sono io, che a casa mia il giorno dopo ci devo tornare, e mia madre me la ritrovo comunque davanti. Io, non tu”.
“D’accordo, e anche questo te l’ho già detto. Il giorno dopo ci vengo anch’io, da tua madre e le
parlo, non ho proprio niente da nascondere. Mè a te mè a lei”
“Tu non ti rendi conto di come stanno le cose. Se mia madre ti vede anche solo davanti a casa, ti tira i vasi giù dal balcone. E tu le vorresti parlare”.
“Certo che le voglio parlare. Ti voglio bene, ti ho sempre voluto bene. E glielo voglio proprio dire.
Perché non deve accettarlo? Tu stai bene con me? E quindi, perché non deve accettare le tue scelte?
“Oh ceto, mi vuoi bene. E anche io. Anzi, sono innamorata di te da anni, come mai di nessun altro nella mia vita. E ancora non capisci. E non sai quante volte gliel’ho gridato in faccia, che siamo felici e contenti, che il nostro amore è per sempre.
E l’ultima volta, invece che andarsene e non dire più nulla, mi arriva uno schiaffo in faccia. Cinque dita, secche, di mia madre. E me lo sento ancora qui, e mi rimbombano ancora le orecchie, di quello schiaffo”.
“Ma cazzo! Quale madre non rispetta i sentimenti della figlia? Non hai dodici anni, tra un po’ ne hai il doppio”.
“Appunto, tra un po’ ne ho il doppio. E che futuro vedi davanti a me? Come tutte le mamme vorrebbe una vita normale per sua figlia. Un bel matrimonio, un bel vestito bianco, tanti bei nipotini da coccolare. E io con chi sto? Con uno che tutte ste menate le ha già strafatte, e che ora le sta fuggendo. Che la sua nidiata di cuccioli l’ha già avuta. E non te ne faccio una colpa lo sai, se in queste cose non ti ci vuoi impantanare di nuovo. Ma un giorno chissà, queste cose che adesso ci fanno ridere, forse sarò io stessa a volerle”.
“Sabri, non c’è niente di nuovo in quello che mi stai dicendo. E’ stato sempre così, da quando ci siamo conosciuti”.
“Lo so”.
Raccoglie la borsetta. Ne tira fuori una busta bianca. Anonima,severa.
“Cos’è?”
“Ti ho scritto una lettera”
“Non voglio nessuna lettera”
“Ormai l’ho scritta”.
“E io non la voglio leggere. Volevi parlare no? E allora parlami. Se hai qualcosa da dirmi me la dici.
Niente lettere né buste bianche”.
Lei rimette la busta nella borsetta, la borsetta sul tappetino.
Nessuno parla più. Guardano entrambi fuori dal parabrezza, la notte gialla e ceca intorno a loro.
“Mi è venuto freddo Fabri, andiamo a casa?

Si sfila dalle lenzuola, va in bagno in punta di piedi. Lui si muove appena, riprende subito sonno.
Lei si sciacqua il viso, si riveste. Torna in camera per salutarlo. Lo bacia, gli accarezza la fronte, se ne va senza fare rumore.
Nella penombra del soggiorno filtrano timide le prime luci del mattino. Appoggiata sul tavolo, sempre più nitida, la busta bianca.

“D’accordo signora, come preferisce. Tenga i campioni fino a quando non ha deciso”.
Il suono della sirena avvolge capannone e uffici, e con tempismo sorprendente i sui colleghi hanno già chiuso postazioni e armadi, si sono già incanalati nel corridoio che porta alluscita.
“Che fai, ti fermi ancora? Non vieni a fare l’aperitivo?”
“Dai che è tutta scena, appena usciamo sei già su face book”
Saluta la signora, mette giù il telefono.
“No ragazzi non è sera, devo finire ancora un paio di cose”.
“Se se…..ciao ci vediamo”.
“Dai Fabri, morto un Papa…”
“Non fare mattina eh”.
Guarda il cellulare. “Stasera toqueville non ti sciupare a rispondere cadavere” spegne anche lui il computer, esce non appena gli altri se ne sono andati. Fuori divampa la primavera. La solita fila di alberelli secchi e un trionfo di bianco e rosa. Ed è così dappertutto, lungo i viali alberati sulla strada del ritorno, nei campi, nei giardini. Ormai è impossibile ignorarlo.
Entra in casa ed è ancora chiaro, il miracolo dell’ora legale. Lo stesso gli sembra di entrare in una
tomba. La busta bianca è ancora lì sul tavolo. Nonostante il tempo passato, non le ha ancora trovato un posto.
La prende in mano, ne tira fuori un foglio ormai sciupato. Lo stringe, lo rilegge ancora una volta.
Gerry Scotti. Affetta i pomodori e l’insalata. Telegiornale. Sale il caffè. Prime partenze del lungo
weekend di Pasqua. Lava i piatti, passa lo straccio sul tavolo. Il meteo è presentato da. Spegne.
Beve il caffè, infila le scarpe. Imbocca la porta di casa, galoppa giù per le scale.

Un rapido passaggio davanti alle uscite vetrate. Il parcheggio stavolta è pieno di vita. Gelati carrelli
ottovolante. E la sua macchina stasera è lì, stasera non devono parlare.
Prende la via delle colline. Senza fretta, ha tutto il tempo che vuole. Si ferma sotto il balcone fiorito, spegne il motore.
Se mia madre ti vede solo davanti a casa, ti tira i vasi.
Chissà se conosce la macchina?

Cala la sera, poi la notte. C’è da aspettare, da aspettare tanto. Lo sapeva, nessun problema. Sto arrivando! aspettare, è stata lei ad addestrarlo. Anni e anni di attese, fino al cuore della notte. Ma lei, allora, alla fine arriva sempre.
Le dieci e cinquantasette. Alza il finestrino, si accorge di essere uscito di casa in maglietta. Dietro al balcone fiorito sopra di lui si spegne l’ultima luce. Altro che tirar giù i vasi, quelli se ne sono andati a dormire.
Le undici e quarantaquattro. Sarà già uscita? C’è sempre qualche dannato intoppo, quando fa chiusura. No, non sarà ancora uscita.
Fa freddo maledizione, altro che primavera. Scende dalla macchina, si sdraia sull’asfalto del marciapiede. Hop hop hop, cinquanta flessioni, riposo,altre cinquanta. Ok, facciamo venticinque.
Ti immagini se arriva adesso?
Le zero zero trentadue. Cazzo si gela. Ormai deve essere uscita. Per forza dev’essere uscita.
Quanto ci vuole per tornare a casa? In giro c’è un silenzio lunare. Non passa un’auto a pagarla, non passa un cane.
Battito del cellulare “oh non vieni a battagliare? Noi stiamo uscendo”.
Perché me lo sono portato? Non serve a nulla.
Zero due zero sette. Un nottambulo in pigiama giacca a vento e cappuccio porta il cane a pisciare.
Sbuffi di condensa davanti al muso del cane, davanti al muso dell’uomo.
Ragazzi che freddo. Io me ne vado. Cosa sto qui a fare? In maglietta poi, che imbecille. Maledetta, dove sei andata. E’ solo un dannatissimo mercoledì di sera. Ci credo che tua madre ti sacramenta addosso, quando torni a casa.
Le quattro e trentasei. Non ce la faccio più, devo pisciare anch’io. Fa due passi, si ferma a ridosso di un muretto di mattoni rossi. Batte i denti. Dove- diavolo- sei. Sei con un altro, io lo so. Non una che va a perder tempo in discoteca. Manco due settimane sono passate. Non mi amavi alla follia?

I passeri cinguettano già da un po’.
Un lieve chiarore si diffonde ad est, ne cielo coperto.
Appoggiato sul parafango, gli occhi gonfi, guarda l’ora, ancora una volta. Risale in auto, si avvia.
Piano, quasi non fa rumare.
Un lungo rettilineo in discesa, un attraversamento pedonale. Rallenta.
Dall’altra parte della strada la sua auto, i suoi capelli, i suoi occhi.
Scendono, attraversano di corsa, si incontrano a metà. Si abbracciano increduli.
“C’è un sacco di movimento davanti a casa tua, di notte”
“Da te invece solo foche e pinguini”
“Si che freddo che faceva, tutta la notte fuori, mi hai fatto passare”.
“Bhe, non tenevi la coperta nel bagagliaio?”
“Bastardo”.
“Vigliacca”.
Si stringono forte, senza più lasciarsi, in una piccola mezzaluna al centro della statale, nel crescente traffico pendolare, incuranti delle lunghe ondate di clacson di bilici e semirimorchi.