A un anno dalla morte di Ramy Elgaml, ricordiamo la sua storia e quelle collegate alla sua.

“Un anno fa, in un inseguimento lungo come una città operato dai carabinieri, mentre si trovava su uno scooter guidato dall’amico Fares Bouzidi, moriva Ramy Elgaml Sono stati indagati per omicidio stradale Bouzidi e Antonio Lenoci, il carabiniere alla guida dell’auto che rincorreva Bouzidi e Elgaml. Al di là della verità processuale, resta una questione politica che riguarda non solo Milano ma soprattutto Milano. Mai come nell’ultimo anno ho incontrato e ascoltato racconti di ragazze e ragazze fermati, di controlli che seguono una precisa linea del colore, di Daspo “Willy” e Daspo Urbano. Mai come in quest’ultimo anno sono aumentati i MSNA negli IPM, i “giovani adulti” stranieri nelle case circondariali. Venerdì sera, parlando con Rajaa Ibnou di Immigrital, è emersa la fatica immensa che le famiglie soprattutto di prima generazione, fanno per sostenere il peso materiale e simbolico di questi processi. A ridosso della morte del figlio e delle proteste che ne erano seguite, il papà di Ramy aveva dichiarato: “Nessuna vendetta. Rispettiamo la legge del nostro paese, l’Italia. Abbiamo fiducia nella magistratura italiana, vogliamo solo sapere ciò che è successo. Ci dissociamo da tutti i violenti, e ringraziamo tutti per la loro vicinanza”.  Sono molti i sentimenti: la paura del fallimento (proprio e del progetto migratoria), il senso di colpa, la necessità di elaborare il lutto, ma anche di trovare pace e giustizia. Sulla loro pagina si legge: “Non ci sono ‘2Gen buoni’ e ‘maranza cattivi’. Rifiutiamo questa distinzione e divisione creata artificialmente dall’esterno. Ci sono condizioni economiche, culturali, sociali che agiscono a livello sistemico, istituzionale e relazionale attraverso processi che ci opprimono e ingabbiano. In queste maglie soffocanti abbiamo tentato e tentiamo di costruirci strade. Vogliamo costruirci orizzonti migliori per tutti: come individui, famiglie e comunità migranti e proletarie”. Io credo che si debba partire da lì, e dalla responsabilità che abbiamo tutti nel raccontare e vivere gli spazi della città, e le necessarie trasformazioni della cittadinanza.

Se questa distanza sociale e materiale vale indistintamente per tutte le persone che si trovano al margine della metropoli per ragioni di classe o di status, questa dinamica si rafforza ulteriormente nel caso dei cittadini stranieri, in cui al margine economico si somma il margine giuridico, il confine. Il confine si produce e riproduce negli incontri, nel mancato riconoscimento, nella valutazione morale della legittimità a stare, nella possibilità costante di revocare tale concessione. Il confine toglie ulteriormente potere, nella sua pervasività e permanenza che si manifesta nell’incertezza e revocabilità del riconoscimento, dell’accoglienza, dello status. Un ricatto perenne che si rafforza nelle parole e nei racconti populisti, nel costante allarme sociale. Un meccanismo attivo da trent’anni, che oggi però raccoglie le tempeste di chi ha seminato vento sulla pelle delle persone che hanno scelto di abitare qui. Milano non è l’unica città, ma per caratteristiche specifiche e per popolazione, anticipa e radicalizza queste tensioni. Non “concedere” i diritti, ma riconoscere la legittimità giuridica e politica di tutte e tutti, a prescindere dal tempo di residenza o dalla provenienza. L’incertezza di status denota una condizione di “impossibilità” dello stare davvero in un luogo, produce e riproduce rabbia e frustrazione, toglie costantemente potere, lasciando ai margini. Se non puoi essere nessuno, se sei invisibile, allora anche un’etichetta dispregiativa può essere uno statuto di esistenza. Si deve allora ragionare davvero di cittadinanza: formale, ossia il riconoscimento giuridico di una serie di diritti necessari per sentirsi legittimati; sociale, intesa come scambio e interazione tra gruppi”

Purtroppo, l’accaduto a Milano non è un episodio isolato. Come raccontato anche da @info_4_migrant esiste un pattern europeo di violenza poliziesca durante inseguimenti e controlli.

Ramy Elgaml aveva 19 anni. È morto durante un inseguimento per una violazione amministrativa, non un reato.
Come lui, in tutta Europa, giovani – spesso neri, arabi, rom, migranti, ragazzi dei quartieri popolari – continuano a morire in situazioni che non avrebbero mai dovuto trasformarsi in tragedia.
Gli inseguimenti ad alta velocità, gli speronamenti, l’uso sproporzionato della forza non sono “incidenti”: sono il risultato di una cultura operativa aggressiva, che mette al centro l’idea di fermare subito e a ogni costo, anche quando non c’è alcuna minaccia reale.
La presenza della polizia dovrebbe ridurre i rischi. E invece troppo spesso li aumenta.
Ramy, Fabian, Lorenz, Nahel, Adil, sono solo alcune delle vittime della violenza poliziesca. Serve verità e giustizia. Serve un altro modo di intendere la sicurezza: uno che metta al centro la vita, non la forza.”

Queste parole non sono solo un ricordo, ma un impegno a non lasciare che la sua storia, e quelle come la sua, cadano nel silenzio.