Di Roberta Ragaini

Il concetto di razza non ha alcun fondamento scientifico.

Dovrebbe bastare questa affermazione, ormai sostenuta ampiamente dalla comunità scientifica, per chiudere la questione.

Ma quando abbiamo iniziato a sentire la necessità di classificare il genere umano per razza?

Pare che l’origine sia da ricercare nell’epoca coloniale.

Nel XV secolo, quando l’uomo ha iniziato a muoversi nel mondo, ha avuto bisogno di giustificare il dominio che ha esercitato sulle popolazioni meno civilizzate incontrate nelle sue esplorazioni.

Nel secoli a seguire, gli antropologi hanno elaborato, a  questo scopo, dei criteri per catalogare e distinguere le razze.

I primi tentativi risalgono in realtà ad epoche ancora più antiche, ad opera di Erodoto nel V secolo a.C., di Aristotele  un secolo dopo e anche di Plinio il Vecchio.

I criteri di classificazione erano all’epoca quanto di più lontano dalla scienza: si parlava di differenze basate sulla collocazione geografica, sugli usi, sulle tradizioni e perfino sul clima.

Per quanto riguarda gli antichi quindi, concretamente, con razza si indicava più un’identità familiare che genetica.

In epoca più recente fu un naturalista, Carlo Linneonel XVI secolo a riprendere il discorso, tentando una classificazione della specie sapiens, ma sempre facendo riferimento a caratteristiche poco oggettive, come per esempio il modo di vestire.

Nel corso dei secoli il dibattito prosegue, ma gli argomenti sono quasi sempre basati su pregiudizi, addirittura su giudizi qualitativi che ne sottolineano la poca fondatezza scientifica.

Solo alla fine del ‘700 inizia ad esserci un approccio più scientifico che si basa sula misurazione del cranio, ma anche qui si finisce per dire che dalla razza originaria, collocata geograficamente nel Caucaso, le altre razze si sono sviluppate attraverso un processo degenerativo, partito dalla razza bianca.

Bisogna aspettare Charles Darwin, nel 1859, per avere una prima affermazione certa dal punto di vista scientifico: le specie viventi, compresa quella umana, non sono entità statiche, ma si evolvono adattandosi i cambiamenti dell’ambiente.

Quando poi, nel 1871, afferma la completa interfertilità tra le razze umane, evidenzia  una differenza fondamentale  tra le specie umana e quella animale e di conseguenza segna un punto di svolta fondamentale nel dibattito.

Nel mondo animale non esiste la riproduzione tra razze diverse, mentre non esistono problemi di fertilità all’interno del genere umano. Quindi il concetto di razza come lo intendiamo nel mondo animale non può essere applicato al genere umano.

Quello di Darwin non è altro che un autentico manifesto antirazziale.

Sorprendentemente però, proprio negli scritti di Darwin si trovano anche  elementi che riconducono al cosiddetto “razzismo scientifico”, che propone  teorie a sostegno della classificazione delle popolazioni umane in razze che si possano definire “superiori” o “inferiori”. Sarebbe la selezione naturale, caratteristica soprattutto delle popolazioni meno evolute civilmente, a fornire una conservazione della “razza” più forte, intesa però qui come “varietà”.  Va detto che all’epoca di Darwin il razzismo era profondamente radicato nella società, ma queste teorie continuarono ad essere diffuse fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.  Questa selezione naturale, declinata come miglioramento della razza ariana,  è da annoverare tra le basi ideologiche del nazismo e degli orrori che ne scaturirono.

Terminato questo periodo buio della storia, a riprendere la tesi di Darwin sulla non applicabilità del concetto di razza al genere umano, ci pensa Luigi Luca Cavalli Sforza, sostenendo che da un punto di vista genetico le razze non esistono.

La sua teoria è frutto di sperimentazioni scientifiche e matematiche basate su analisi di DNA, geni e gruppi sanguigni in moltissime popolazioni umane, tramite le quali arriva alla conclusione che, per via dei continui flussi migratori, le popolazioni umane hanno continuato a rimescolarsi nel corso di tutta la storia dell’uomo moderno. Ma soprattutto dimostra che la variabilità genetica tra due individui di una stessa popolazione è maggiore di quella tra due individui appartenenti a popolazioni molto distanti.

In altre parole, le razze umane non esistono perché la nostra specie è estremamente mobile e mantiene elevato il flusso genico.

Nel 1978 l’UNESCO pubblica la Dichiarazione sulla razza, un documento che afferma priva di ogni fondamento scientifico qualunque dottrina che pretenda di attribuire a questioni di razza differenze attitudinali, intellettuali e psichiche  e che attribuisca ad incroci tra razze diverse effetti in qualche modo negativi da un punto di vista biologico.

E quindi, se le razze non esistono, va da sé che neppure il razzismo ha ragione di esistere, no?

Esso infatti nasce dalla paura del dell’altro, del diverso da sé, dalla necessità di affermare una superiorità di qualche tipo.

Ma la scienza ci dice, ormai inconfutabilmente, che l’altro non è poi così diverso, e  che apparteniamo ad un unico genere, quello umano.

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23 gennaio 2019