Qualche considerazione sulla storia in corso. Di Stefano Levi Della Torre. Giugno/luglio 2018.
La perdita progressiva del centro da parte dell’Occidente, le migrazioni, il ridursi dell’ efficacia politica a scala nazionale e la rivoluzione informatica ci impongono di aggiornare l’interpretazione pratica e teorica dei principi di libertà e giustizia. Tra mondialismo capitalistico e populismi nazionalistici, siamo su una china da cui si potrà verificare un risveglio solo dopo a aver toccato un fondo ancora imprevedibile. Ma lo sforzo politico e intellettuale, seppure per lungo tempo perdenti, sono necessari alla resistenza e alla risalita.
1.
Le democrazie liberali del XX sec, col loro Stato sociale, si sono basate sul compromesso tra borghesia e classe operaia, tra capitale e forza lavoro. Il compromesso bipolare dopo la II guerra mondiale era nello spirito della pace di Augusta e di Westfalia, cuius regio eius religio, e in Occidente, e soprattutto in Europa, il movimento operaio accettava i limiti posti dai rapporti di forza interni alle nazioni e agli equilibri geostrategici bipolari, mentre il capitale accettava riforme e Stato sociale. Nei 68, la prima generazione del dopoguerra contestava la cappa del compromesso bipolare nelle sue articolazioni nazionali, ma i movimenti erano dentro l’ambito globale del compromesso geostrategico post bellico, che garantiva la pace. In Italia, come nella Resistenza si aggirava lo spirito di un Risorgimento inconcluso (“fare gli italiani”), così nel 68 si aggirava lo spirito di una Resistenza inconclusa. Inconclusa per il compromesso postbellico, di cui erano garanti i partiti di centro e di sinistra, anche perciò contestati. Malgrado l’attività ininterrotta della reazione, tra la fine dei fascismi e il 2000 è stato, in Italia e in Europa, il periodo di massima affermazione possibile della democrazia liberale e riformista.
Due fatti, l’uno geopolitico, l’altro strutturale, hanno segnato un crinale storico: la fine dell’Urss e il balzo informatico delle forze produttive e del capitale. Il primo fatto ha avuto due conseguenze principali: la crisi ideologica e politica delle sinistre, dai comunisti alla socialdemocrazia, e la trasformazione dell’assetto bipolare in una dinamica multipolare del mondo. La fine del bipolarismo ha prodotto una miriade di subimperialismi, passando da una relativa prevedibilità a una caotica imprevedibilità. Anche questo ha effetti sulle inquietudini e sulle paure che agitano questo periodo.
Il secondo fatto, la rivoluzione informatica, ha permesso al capitale di affrancarsi come non mai dalla dimensione nazionale per muoversi più liberamente sulla dimensione globale, estendendo ulteriormente la sua componente più fluida, quella finanziaria. E poiché la democrazia e i diritti sociali e civili hanno avuto la loro massima vigenza e capacità di compromesso sociale, giuridico e fiscale nella dimensione dello Stato-nazione, il capitale ha potuto affrancarsi da quella dimensione e quindi dal compromesso democratico, dallo stato di diritto e dal patto fiscale. Al che, le masse stanno rispondendo in Occidente in maniera per così dire simmetrica: di contro al “mondialismo” del capitale reagiscono ri-nazionalizzandosi. Rispondono all’appello nazionalistico delle destre, e mettendo in primo piano l’istinto di difesa, sono disposte a sacrificare libertà in cambio di sicurezza e diritti in cambio del soddisfacimento elementare del bisogno. Diritti non solo altrui, ma anche propri. Non era questa pulsione a proteggersi quella che aggregava il villaggio intorno al baluardo feudale? Non era questa domanda di difesa ad alimentare il Leviatano di Hobbes? Tralascio i corollari troppo noti: xenofobia, ostilità alle minoranze, capri espiatori, vittimismo, rivalsa maschilista….
Che cosa dunque succede? Che il patto democratico tra capitale e forza lavoro come l’abbiamo conosciuto dal dopoguerra, e a cui ci eravamo abituati come a una conquista stabile, viene ora rotto da entrambi i contraenti: dal capitale mondializzato e dalle masse nazionalizzate. In mezzo, l’UE, né carne né pesce, a mezzo guado tra Stati nazionali e confederazione sovranazionale.
2.
L’aumento del Pil non sta determinando un miglioramento generalizzato della condizioni di vita, come invece era avvenuto, seppure in modo discontinuo, a partire dal dopoguerra. La correlazione tra aumento del PIL e aumento del benessere che aveva portato alla società dei consumi era dovuto al modificarsi positivo dei rapporti di forza tra capitale e lavoro nell’ambito della democrazia, entro cui capitale e lavoro convergevano nel comune interesse allo sviluppo della domanda interna, con relativo aumento dei salari ed estensione dello Stato sociale nell’ambito della nazione e della moneta nazionale. Nella situazione nuova, all’aumento del PIL non risponde affatto un allargarsi di migliori condizioni di vita. Al contrario, vanno aumentando le sacche di povertà, e va allargandosi la forbice tra povertà e ricchezza. Ciò dipende da un’inversione nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, strutturale e di conseguenza politico. Mentre il capitale ha potuto valersi della rivoluzione digitale per potenziare la sua mobilità, affrancandosi da vincoli politici, giuridici, fiscali, e territoriali, la forza lavoro si è trovata aggredita dall’altro lato della stessa rivoluzione digitale, in termini di sostituibilità con le macchine e soggetta alla concorrenza di un esercito di riserva mobilitato dalla dislocazione produttiva e dall’immigrazione. L’emigrazione ha cambiato natura: mentre un tempo a emigrare erano gli strati a bassa istruzione, ora essa è riservata, all’opposto, ai “cervelli in fuga”, fatto che lascia all’Italia i costi della formazione per poi privarla delle competenze acquisite. La forza lavoro si è trovata più sola di fronte ai sistemi fiscali, con gravi conseguenze nell’aumento dell’età pensionabile e riduzione dello stato sociale e dei servizi sanitari. Forse è questo affrancarsi del capitale dalla dimensione del compromesso democratico nazionale e dai suoi vincoli giuridici e fiscali a determinare il fatto che l’aumento del PIL comporti non una redistribuzione del benessere e dell’istruzione, ma, al contrario, un aumento della diseguaglianza, nel mondo e in Italia. Questo processo è stato sostenuto e vezzeggiato dalle ideologie liberiste, fatte proprie anche dalle già sinistre istituzionali, assoggettate, in buona o cattiva fede, dall’istanza complessata di modernizzarsi. Malgrado il disastro da loro incoraggiato, i sostenitori del liberismo insistono nell’agitare la curva di Laffer come una bandiera, a giustificazione etica e pratica della loro ideologia, che si pretende non-ideologica. Evangelicamente (Marco 7, 27-28), la curva vorrebbe dimostrare che arricchendo la mensa degli eletti, più ricche briciole cadrebbero ai cagnolini sotto la tavola. La proposta della flat-tax, come ogni incoraggiamento all’evasione e al condono fiscale adombrati dal nuovo governo italiano Lega e 5Stelle, ne è una propaggine. Ma se la vantata curva di Laffer poteva avere qualche vigenza nell’ambito dei rapporti di forza democratici, essa naufraga nella globalizzazione liberisticamente gestita, dove i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri, almeno relativamente. O meglio, il vessillo di Laffer non fallisce, ma semplicemente rivela la lotta di classe agìta dai ricchi. L’aveva avvertito lucidamente uno degli uomini più ricchi del mondo, Warren Buffett di Omaha: “Il presidente Reagan è un irresponsabile, non gli basta che noi ricchi vinciamo, vuole che stra-vinciamo”.
3.
A differenza delle destre classiche, oligarchiche o liberali, le destre di massa, fascismi e populismi, hanno una vocazione alla rivalsa vittimistica. Emergono sullo stesso terreno in cui si propone la democrazia, cioè la società di massa. Con la democrazia e col socialismo hanno in comune la vocazione a rappresentare la collettività, ma mentre lo spirito democratico scommette (è sempre una scommessa) sulla consapevolezza, la razionalità e la responsabilità adulta della persona nel decifrare lo stato delle cose, le sue cause e le sue possibilità, e per questo promuove l’istruzione, la cultura e la critica, fascismi e populismi tendono invece a ricacciare la persona nella massa, e per questo promuovono l’indottrinamento e contestano la cultura come privilegio anti-popolare. Per questo, al pari di quella dei fascismi, la propaganda populista ha sempre un tenore vittimistico, perché il vittimismo è una pulsione elementare e trasversale della massa, ne esprime le inevitabili insoddisfazioni e le infiamma, sicché è argomento fondamentale di ogni demagogia che voglia conquistare il potere per poi unire massa e potere. I fascismi conquistarono consenso di massa proclamando d’esser perseguitati, masse e potere, dalle democrazie, dai comunisti, dagli ebrei… Al pari della religione confessionale, il vittimismo è instrumentum regni. In questo ruolo, della religione è spesso compagno, e ne echeggia i temi del martirio e della rivalsa, del nemico, della purificazione, dell’aspirazione gregaria alla maggioranza insofferente alle minoranze. Il populismo è forse frutto dell’individualismo promosso dalla democrazia liberale e dalla frantumazione delle classi sociali? Solo nel senso che l’individuo si scopre debole e insignificante di fronte ai processi storici che lo coinvolgono e per questo punta a proteggersi facendosi massa in nome di nuovi messaggi liberatori, punta sul gregarismo protestatario piuttosto che sull’individualità critica.
Pure, c’è differenza tra populismi attuali e fascismi del secolo scorso. Non solo nell’esercizio della violenza, diretto e proclamato nei fascismi, ipocritamente indiretto (contro gli immigrati, la libertà di stampa, gli “intellettuali”) nei populismi. Sì, anche i fascismi erano vittimisti (siamo perseguitati dalle democrazie, dai comunisti, dagli ebrei mondialisti), ma per proclamare legittima difesa la loro volontà di aggredire ed espandersi sfondando i muri della “casa” altrui, mentre i populismi attuali hanno la propensione a costruirli i muri, ma quelli di “casa propria”. Per ora, almeno. E’una differenza di vettore: i fascismi erano espansionistici, i populismi attuali sono isolazionistici. Compreso, mi sembra, quello di Trump. Il fatto che in Italia possa essere il ministro degli Interni a dettare il tono del governo anche in politica estera è espressivo di questo fatto.
Una differenza fondamentale fra i fascismi storici e le destre nazionaliste che crescono in Europa sta nel fatto che per i fascismo storico si dava la possibilità reale di ricreare l’armonia fra le classi non solo sul piano ideologico, grazie alla propaganda nazionalistica e razziale, ma soprattutto sul piano materiale, grazie al saccheggio delle risorse altrui: gli ebrei, gli abissini, i popoli via via soggiogati … Oggi questa possibilità non c’è più o è più indiretta. Anche se altre terre e in particolare l’Africa rimangono luoghi di saccheggio e di depauperamento quanto a materie prime e risorse umane. Ne consegue che è molto più difficile tenere insieme il “fascismo populista” e quello “a favore dei padroni”. In Argentina, grazie alla sponda USA, ha prevalso a suo tempo quello “a favore dei padroni”; in Polonia o in Ungheria, grazie agli aiuti europei che in qualche modo hanno sostituito il saccheggio degli ebrei, ha prevalso il “fascismo populista”. Questa difficoltà di tenere insieme la schizofrenia tipica del fascismo- quella di amalgamare padroni e lavoratori – crea una situazione storicamente nuova, di cui è difficile prevedere gli esiti.
Un’altra differenza sta in questo: i fascismi del XX sec., compresi quelli dell’America latina, hanno generalmente goduto dell’appoggio delle Chiese ufficiali, e in particolare della Chiesa cattolica. L’anticomunismo, l’antisemitismo, la lotta contro l’emancipazione laica erano fattori della loro alleanza. Contro nemici globali, reali come il blocco dell’Est, o immaginari (come “il complotto mondiale ebraico”), i nazionalismi fascisti avevano un terreno internazionalistico comune. Oggi invece i populismi, nella loro chiusura nazionalistica, sembrano avere più difficoltà a trovare un tale terreno. Sono ideologicamente affini, sono concordi nel proclamare le immigrazioni come incarnazione e icona di un’ aggressione globale, ma al tempo stesso la questione politicamente li divide: chi respinge gli immigrati ne scarica sugli altri la massa e la tragedia. Né il nemico islamista, dato il conflitto interno al mondo islamico, riesce a presentarsi come un sistema globale e coeso qual era il comunismo ai tempi dell’URSS. E per le Chiese, e in particolare per la Chiesa cattolica, conflittuale al suo interno, non ci sono più ragioni geopolitiche per mettere in gioco i propri valori conclamati per appoggiare i nuovi nazionalismi, volendo anzi rinnovare, nella globalizzazione, la dimensione universalistica del loro messaggio in un mondo che si rimescola. La religione può essere un’alleata locale del populismo di destra, ma in generale risulta un inciampo, spesso un’antagonista.
Rispetto ai nazionalismi classici, che puntavano sullo Stato nazione come fenomeno in ascesa, il nazionalismo populista attuale soffre di una difficoltà: si aggrappa allo Stato nazione che è fenomeno in discesa.
4.
Da sinistra si reagisce alla demagogia populista con l’accusa di “fascismo” e di “razzismo”. C’è del vero, certo, al di là delle differenze non piccole dette sopra. Ma questi termini sono logorati dalla situazione, e sembrano più agitati come esorcismo autoreferenziale della sinistra, che come accusa che possa preoccupare gli accusati. Sono accuse di cui non abusare, possono rivoltarsi. Che cosa ci dice nei fatti, se non a parole, un operaio già comunista che ora vota a destra?: “Tu chiami fascismo e razzismo la mia domanda di difesa. E’ un mio bisogno, di fronte alla dislocazione del lavoro e all’esercito di riserva a scala mondiale che la globalizzazione e l’immigrazione mi buttano addosso, rendendo precaria la mia occupazione, il mio salario, le mie abitudini. Che cosa ha fatto in questa crisi la sinistra? Sì, ha fatto, con cautela, qualcosa sui diritti civili, e può essere giusto, ma questo, più che me, interessa i suoi attuali ceti di riferimento, quelli colti e agiati, mentre sui diritti sociali ha colpito duro, legalizzando la precarietà, smantellando molte mie conquiste acquisite in anni di lotte, e ha umiliato la dignità sociale della mia figura di lavoratore che un tempo esaltava, e tutto ciò in nome del liberismo e a favore d’altri. Dici che la democrazia si qualifica su come tratta le minoranze e i loro diritti, i gay, gli immigrati, le comunità religiose o etniche, ma questo funziona soltanto se vengono prima di tutto difesi e affermati i diritti e gli interessi delle maggioranze. Altrimenti, quelli delle minoranze non ci parranno diritti ma privilegi, e questo induce risentimenti che rendono disponibili alla reazione clericale, conservatrice o fascista ai diritti civili, in nome di un’identità maggioritaria e collettiva che invece non troviamo più in un’identità di classe disgregata. Ora tu metti sotto accusa il mio bisogno e la mia domanda di sicurezza per provocare il mio senso di colpa, mentre la destra il senso di colpa me lo toglie. Se il mio bisogno e la mia paura vuoi tacciarli di “fascismo” e “razzismo”, o anche solo di ignoranza, sappi che questo non è un problema mio, ma tuo, per sentirti nel giusto e farmi la morale. Mi sei anche venuto a dire, in questi anni, che “l’immigrazione non è un problema ma una risorsa”. Forse tu la osservi, la usi a tuo sevizio o la computi in statistica, mentre io la vivo, convivo con gli immigrati nelle periferie, competo con gli immigrati sugli spazi, sui posti di lavoro, sulle risorse esauste dell’assistenza pubblica e della sanità. Bada che i nostri diversi punti di vista non abbiano un segno di classe di cui non ti accorgi più, criterio che un tempo era tuo e che tu, sinistra, da troppi anni hai dimenticato diventando borghese, perché la propria condizione sociale determina la propria coscienza o incoscienza sociale. Non dirmi, per tranquillizzare te stessa, che “l’immigrazione non è un problema ma una risorsa”. E’ falso, ed è subordinato alla destra perché non fa che ribaltare la sua propaganda. Abbiamo bisogno di verità, e la verità è che l’immigrazione è una risorsa ed è un problema. (un tempo, non amavi le contraddizioni?). Un problema enorme se non per te, quanto meno per me e per gli immigrati, in competizione tra noi”.
Il passaggio dalla sinistra alla destra e dal socialismo al nazionalismo dei lavoratori sfruttati è stato uno dei tratti più importanti nella formazione delle dittature nel XX secolo. In particolare del Nazional-Socialismo: già nel nome un programma. Ne vediamo le conseguenze anche nel fatto che i Paesi già sotto influenza sovietica rappresentano ora l’area più reazionaria d’Europa (la fascia di Visegrad, sponda di Salvini). Il fatto che la questione venga spesso considerata con sufficienza da sinistra (“votano a destra perché sono ignoranti”) è allarmante. Da cosa deriva questa presuntuosa stupidità intellettuale di sinistra? Dall’abbandono a sinistra dei criteri di classe nell’analisi dei processi sociali e di sé stessi; dal non porsi come problema cruciale il fatto che la sinistra regge nella fasce benestanti e nei centri urbani mentre crolla nelle periferie e nelle fasce popolari. Ora la retorica buonista è di gran lunga preferibile alla retorica della spietatezza che sta vincendo. La solidarietà, l’accoglienza, la comprensione dell’altro, la priorità indiscutibile della salvezza delle vite sono principi e sentimenti su cui battersi con ogni impegno sul piano importantissimo delle mentalità e del senso comune, ma sono anche dei fatti e in quanto tali hanno dei costi umani e materiali che pongono la domanda: come affrontarli concretamente? E soprattutto, su chi gravano in prima istanza, e come risolvere le sperequazioni di classe che possono creare? Domande che possono disturbare la spontanea effusione dei sentimenti, ma che, senza risposta, relegano quei sentimenti nell’ambito del privilegi di chi può liberamente permetterseli.
L’offuscamento dei criteri di classe nell’interpretazione dei fatti sociali e di sé stessi è una delle vittorie che il capitalismo ha saputo scavare nel cuore della sinistra. In questo mi adeguo alla tesi di quei teologi secondo i quali l’inesistenza del diavolo è una fake news messa in giro dal diavolo stesso per poter operare indisturbato. Così c’è chi ha tutto l’interesse a diffondere la voce che la lotta di classe, e in particolare quella dal basso verso l’alto, è roba d’altri tempi, per poter condurre sotto mentite spoglie (la fatalità del mercato, l’algoritmo…) quella dall’alto verso il basso.
5.
Nel bene e nel male, il secolo XX è stato un tempo di ideologie a forte tenore messianico. Ora, le sinistre in Europa soffrono di una depressione post-messianica. Ferite dagli esiti negativi o catastrofici dell’ideologia e dalla decomposizione tecnica e sociale dei soggetti di riferimento (della classe operaia, dei ceti medi e dei contadini), temono gli slanci ad immaginare, come un tempo, un futuro alternativo e mobilitante. Complessate dal loro passato, assumono le ragioni degli antagonisti, abbandonano gli ideali egualitari e di giustizia sociale, si venano di liberismo e di mercato come inevitabile logica dello sviluppo sociale, e si dedicano ad amministrare lo stato delle cose: un presente debole di futuro.
L’epoca delle ideologie è stata sostituita dall’epoca del virtuale. Il sogno e la narrazione proiettati nel futuro dalle ideologie, sono stati sostituiti dal sogno in tempo reale, immediato dei media. Pure, il futuro è “sustanza di cose sperate”. Delineare il futuro è un atto politico. Senza questo, che fine fa l’idea universalistica della “fratellanza umana”? Regredisce al suo significato letterale: fratelli e sorelle sono fra loro contemporanei, sincronici. Sulla base tecnica digitale dei mezzi di comunicazione, il “tempo reale” prevarica il tempo storico, riduce la percezione della storia a una persistente contemporaneità: “villaggio globale” o unità in “tempo reale” del genere umano: la società umana come sistema di relazioni simultanee tra contemporanei viventi. La rivalsa etnocentrica, che a questo reagisce con le sue degenerazioni xenofobe e razziste, è un’aberrazione, ma in essa possiamo cogliere un’importante obiezione all’“universalismo” del persistente presente: lo denuncia come dissolutore della memoria e della speranza, del passato e del futuro, e alla rete sincronica tra i viventi oppone la solidarietà diacronica con gli antenati e i non ancora nati. Lo xenofobo e il razzista pretendono che i bisnonni si riproducano nei pronipoti, e parlano dunque del futuro, che in quanto tale seduce tanto più quando mancano da sinistra proposte credibili e suggestive di futuro e di speranza, schiacciate dall’ ossessivo presente del “tempo reale”, dal “realismo” del mercato. Il mercato mondiale è come un’incarnazione di questo universalismo in “tempo reale”: la sua infinita e simultanea capacità di scambio, babele delle lingue, “equivalenti generali” che sottendono egemonie non equivalenti.
Anche la religione ha la vocazione a proporre un’arcata tra passato e futuro (ancorché immaginario) che libera dall’ossessione del presente, e in ciò mi sembra consistere in gran parte la sua rinnovata attrattiva.
Ciò che non è simpatico negli sciovinisti – diceva Karl Kraus – non è tanto l’avversione per le altre nazioni quanto l’amore ingiustificato per la propria. Questo insegna quanto possa essere erroneo combattere la xenofobia e il razzismo come solo ispirati dall’odio, mentre l’odio e la ricerca di capri espiatori sono piuttosto la via per riuscire ad amare sé stessi. L’individualismo di cui ci si lamenta è solo il ventre molle, mentre il duro viene piuttosto dall’attivarsi di solidarietà fascistiche. Lo xenofobo non difetta di solidarietà, anzi la ricerca, è solidale con lo xenofobo, e il razzista lo è col razzista, aggregandosi nello sforzo di sentirsi all’unisono più degni degli altri. Per combattere la xenofobia e il razzismo il punto fondamentale non consiste, come sembrerebbe, nel denunciarne eticamente la carica d’odio, ma piuttosto nel competere col desiderio d’amore e di solidarietà con sé stessi che esprimono: solidarietà contro solidarietà. Una politica che ferisce la dignità di chi lavora e disgrega il campo del lavoro, rendendolo precario per legge, non può che aprire la via al solidarismo fascistoide
Un tempo la sinistra non si occupava solo degli interessi materiali delle forze di lavoro, ma anche del loro senso di sé e della loro dignità di soggetti motori della società. Ora si dichiarano “di sinistra”politiche che in nome della realismo del mercato e della logica del capitale corrodono i diritti e umiliano non solo gli interessi ma la dignità delle classi lavoratrici, quel positivo narcisismo aggregante che un tempo si chiamava “coscienza di classe”, motrice di cambiamento, di limiti posti al prepotere, di democrazia.
6.
La globalizzazione ha comportato una certa riduzione nei prezzi dei consumi e una maggiore concorrenza tra le forze di lavoro. In generale, per quanto riguarda le figure sociali, ha lusingato la figura del consumatore e umiliato quella del produttore e del lavoratore. Ad icona di questo fenomeno, l’apertura dei commerci nei giorni festivi. E’ certo un vantaggio per i consumatori, ma uno svantaggio per chi lavora, costretto ad accettare questa situazione per conservare il posto, in una situazione in cui, sul mercato della forza lavoro, è minacciato dal precariato, dalla disoccupazione, dalla concorrenza anche internazionale tra la forza lavoro e tra lavoro umano e automazione. Nonché dal progressivo smantellamento dei diritti sindacali e dei diritti sociali. Consumatore e lavoratore si uniscono naturalmente nella stessa persona, ma sottoponendola a una dissociazione: come consumatore consuma reddito e risparmio, come lavoratore fa fronte alla precarietà del reddito e di conseguenza alla precarietà del risparmio. In veste di consumatore soddisfa il suo presente, come lavoratore e risparmiatore vede precario il suo futuro. Nella simbologia sociale, nella pubblicità che è inevitabilmente propaganda di valori e modelli sociali, la stessa persona viene lusingata in qualità di consumatrice, mentre viene umiliata e ricattata come lavoratrice; viene esaltata nel suo presente ma resa incerta nella sua prospettiva di vita. Anzi il lavoro che presuppone tempi medio- lunghi, sia dal lato dei tempi di formazione del lavoratore sia nel suo costituire prospettiva di vita, viene costretto al paradigma a breve del consumo: nel precariato il lavoratore viene sottoposto alla logica dell’ “usa e getta”, che è propria dell’oggetto di consumo. Si può dire che la “costituzione materiale” ribalta il primo articolo della Carta Costituzionale, là dove questa parla di una repubblica ‘fondata sul lavoro’ piuttosto che sui consumi.
Anche la politica si va spostando dalla sfera della produzione a quella del consumo. Se un tempo i partiti erano, bene o male, luogo di produzione di cultura e di educazione politica, ora si vanno riducendo ad agenzie pubblicitarie per il mercato del consenso e del voto. I quali, nella logica dei consumi, diventano labili, fluttuanti e a breve termine. Condizionata per vocazione originaria dal consenso e dalla domanda che in tempo digitale si accorciano, la democrazia stenta a proiettarsi in strategie a lungo termine, e l’ambizione politica perde la sua dimensione storica per ripiegarsi sugli interessi personali e sulla corruzione. La democrazia sembra non garantire più un rapporto diretto con la crescita. La Cina si impone allora come modello alternativo: un regime autoritario, che abbia l’intelligenza di perseguire la propria durata nella selezione qualitativa della sua classe dirigente invece che sul consenso a breve, dimostra la capacità di una strategia a medio e lungo termine sul mondo, anche in forme di invadente neo-colonialismo, come in Africa.
Facile indignarsi delle scomposte manifestazioni di Trump, della sua ambigua alleanza con la Russia di Putin, pure da esse risulta uno scenario realistico circa l’emergere della Cina come problema crescente. Può avere una sua logica uno spostamento verso la Cina della linea di demarcazione che un tempo era traccata della Nato contro la Russia. Il potente sviluppo cinese lascia prevedere una crescita al suo interno delle rivendicazioni sociali su salari e diritti. Ma ciò indurrebbe una pressione sui livelli di consumo capace, per le sue dimensioni continentali, di sbilanciare il mondo in termini ambientali, se non si troveranno modelli di consumo radicalmente alternativi a quelli vigenti; oppure, se la classe dirigente cinese vorrà contenere tale pressione all’interno dei suoi confini, sarà indotta a compensare le masse intensificando pericolosamente il tenore nazionalistico e colonialistico della sua azione verso il resto del mondo. E’ una minaccia di futuri conflitti anche militari.
7.
Torniamo al problema di come il ceto politico in Italia ha cercato di garantire sé stesso rafforzando il proprio potere istituzionale a compensazione di una perdita della sua efficacia decisionale alla scala della nazione.
Con il referendum costituzionale il PD di Renzi ha voluto dare una battaglia campale da cui è uscito disfatto. Non si è più ripreso. In tre anni ha perduto la metà del suo elettorato e non ha saputo neppure aprire un dibattito interno sui motivi del suo precipitoso declino. La proposta del referendum – avrebbe detto Talleyrand- non era un crimine, ma peggio, era un errore. Già nella forma il testo si allontanava dallo spirito della Costituzione vigente: questa si era preoccupata, per sua fondamentale vocazione democratica, di essere in ogni punto accessibile per chiarezza ad ogni cittadino; mentre viceversa il testo della riforma presentava tecnicismi astrusi, che rivelavano l’autoreferenzialità del ceto politico che lo proponeva. Il quale si era mostrato per mesi alquanto distratto su problemi cruciali perché tutto concentrato a parlare con sé stesso di governabilità invece che parlare ai governati dei problemi loro. L’errore del referendum stava a monte dei suoi contenuti, ed era un errore che spesso, in politica, è più fatale di un errore di contenuto: sbagliare l’ordine del giorno. Come si poteva pensare che quella riforma costituzionale potesse essere sentita come necessaria e inderogabile mentre imperversavano tante sofferenze sociali e psicologiche di massa nella crisi? Come poteva essere convincente un ceto politico che pretendeva una sua questione più urgente di qualunque altra urgenza ben più evidente e più coinvolgente? Il famoso concetto di Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato d’eccezione” lo potremmo così parafrasare: “sovrano è chi sa decidere dell’ordine del giorno”. Sbagliando l’ordine del giorno, questo passò alle destre e ai populisti. Ma non, come credono ancora in molti, perché chi votò contro fu colpevole di aver indebolito il PD renziano come baluardo contro destre e populisti, ma perché il referendum in sé stesso, il suo carattere autoreferenziale e il suo imporsi indiscreto e intempestivo su altre esigenze, impellenti e trascurate, erano in sé stessi la porta che si spalancava alla demagogia populista della destra.
Da dove proveniva questo errore? Dal fatto che nei limiti dello Stato nazione la decisione politica va perdendo strutturalmente di efficacia perché condizionata da altri centri di decisione economica e politica esterni, e il ceto politico è indotto a compensare questo indebolimento rafforzando e centralizzando istituzionalmente il suo potere per recuperare possibilità di governo. E’ una tendenza che non riguarda solo l’Italia. Aspetti autoritari, negli Usa come in Europa, stanno erodendo i controlli reciproci dei poteri, attraverso interventi degli esecutivi sui sistemi giudiziari, sulla libertà di stampa e di informazione, sull’uso delle carceri e della forze dell’ordine, sulla modificazione dei sistemi elettorali in nome di una governabilità che surroghi la rappresentatività.In un periodo in cui per effetto della crisi e della divaricazione tra povertà e ricchezza, la società si polarizza, Renzi e Berlusconi hanno cercato di convergere sul centrismo, attaccando la sinistra, e sulla centralizzazione, attaccando i sindacati e i corpi intermedi, nonché l’autonomia del potere legislativo e della magistratura. Condividevano l’aspirazione fuori tempo, ciascuno dal suo versante, di farsi “partito della nazione”, idea inscritta già nel nome di “Forza Italia”. Declinavano appunto in senso centrista, insensibile agli umori sociali, l’istanza nazionale, che la destra ha invece saputo animare di rabbia xenofoba e contro le “élites”. Questione su cui la sinistra da noi ha qualche parola, ma più etica che politica. Mentre in altri luoghi qualcosa dice e fa, puntando più a sinistra che al centro, come in Portogallo o in Spagna, tra i democratici negli Usa o tra i laburisti in Inghilterra, forse in Canada o nel Messico di Obrador o nel Brasile di Lula, per ora scalzato da una specie di golpe giuridico.
8.
La tecnologia digitale produce ribaltamenti nelle identità sociali. I mezzi di produzione che nell’epoca industriale erano prerogativa del capitalista, vengono ridistribuiti grazie alla tecnologia digitale. Il computer è un mezzo di produzione travestito da bene di consumo, si insinua nelle nostre case con la familiarità di un elettrodomestico, ma come il cavallo di Troia reca nelle sue viscere una potenza aliena; anche quando ci invita al gioco, ci mette al lavoro. Quanto meno, a riprodurre noi stessi come merce, il profilo delle nostre inclinazioni da vendere sul mercato dei sondaggi politici e pubblicitari. L’ha dimostrato l’affare Cambridge Analytica, che ha influito nello spostamento dei poteri nel mondo. Ciascuno ha in tasca un cellulare che è più potente del calcolatore, gigantesco e d’altissimo costo, che ha misurato l’atterraggio dell’uomo sulla luna. Miniaturizzandosi, la tecnologia digitale ha rapidamente diminuito il suo prezzo ed esteso capillarmente la sua diffusione. Ma chi nell’intimo del suo privato possiede un computer incorre in una inavvertita trasfigurazione sociale: diventa il possessore di un mezzo di produzione, un infinitesimo imprenditore di se tesso. In modo crescente si scaricano sulla sua tastiera funzioni amministrative un tempo affidate ad uffici e a posti di lavoro esterni: ci consideriamo ancora utenti o clienti, mentre, pena inadempienza, stiamo sostituendo aree crescenti della burocrazia pubblica o privata. Così, ad esempio, nell’ editoria, sullo scrittore o lo scrivente si scaricano funzioni redazionali un tempo prerogative delle case editrici e dei loro impiegati.
La figura marxiana del capitalista come proprietario dei mezzi di produzione è superato là dove il capitale finanziario si affranca dalla proprietà materiale per produrre denaro tramite denaro. E’ un fenomeno che è lontano dalla percezione pur influendo violentemente sulle condizioni di vita, ma affiora all’evidenza in alcuni settori dove il digitale permette al capitale di limitarsi a gestire l’organizzazione e il collegamento tra possessori dei mezzi e a raccoglierne i frutti. E’il caso, ad es., di B&B, della cinese Alibaba, di Foodora, di Uber. Sono i lavoratori a detenere i mezzi come un tempo i tessitori disponevano a casa del telaio, sì che nell’epoca postindustriale emergono fenomeni che riproducono modi e rapporti protoindustriali. Così anche lo schiavismo nelle campagne, che si vale dei paria esclusi dai diritti di cittadinanza: quando non usati direttamente dalle multinazionali dell’alimentazione, lo sono da piccoli e medi produttori per reggere, sul lato dei costi, alle imposizione dei prezzi da parte delle grandi compagnie della distribuzione e commercializzazione.
Le mafie, in Italia e in Europa, e i narcos in America Latina sono, nelle viscere sociali delle nazioni, il rispecchiamento del capitale finanziario e della multinazionali e viceversa: sono sistemi economici, spesso intrecciati tra loro sul piano finanziario, che colonizzano gli spazi extralegali che sussistono là dove il tessuto del diritto è ancora sfilacciato o viene lacerato. Nell’analogia delle loro procedure di esproprio, ricatto e connivenze politiche, mafie, multinazionali e capitale finanziario rievocano la brutalità pre e post-democratica dell’accumulazione primitiva: il post-moderno riattiva il premoderno.
Sulle mafie, il potere politico e finanziario non può che essere diviso per i grandi interessi in gioco. Alcuni le combattono, altri vi si alleano come la regina Elisabetta ricorreva al pirata Drake per battere, al di fuori dei gravami legali o diplomatici, i concorrenti spagnoli nella formazione dell’impero britannico. In questo caso, non si tratta solo di “cedimenti” alle mafie, ma di un sistema di collusione premeditata in cui le mafie sarebbero chiamate a contribuire per la loro parte a un’accumulazione finanziaria da giocarsi sul terreno della globalizzazione.
La denigrazione dell’empatia, la pubblicità della cattiveria, la criminalizzazione di ogni più ovvia virtù, perpetrate da chi si propaganda difensore dei “nostri valori”, è uno stravolgimento che riflette il cuore algoritmico del capitalismo, la sua logica “problem solving” senza guardare in faccia nessuno, il suo finalismo tautologico: l’accumulazione per l’accumulazione, il profitto per il profitto, il potere per il potere senza immaginazione di come possa funzionare la società umana. L’SOS è pertinente alla lettera: “salvate le nostre anime”. La cura dell’empatia è un atto di resistenza a portata di ognuno e restare umani è già di per sé un ardimentoso progetto.
9.
In un’intervista del 2003 (La Repubblica, 9/10/2003) lo scrittore franco-tunisino Abdelwahab Maddeb, docente a Parigi di letterature comparate dell’Europa e dell’Islam, proponeva un’interpretazione paradossale e illuminante del diffondersi del fondamentalismo islamista: era dovuto –diceva- al diffondersi dell’istruzione. Ma di un’istruzione senza cultura, grazie alla quale sempre più persone (soprattutto uomini?) erano in grado di leggere il Corano, senza però avere la capacità di contestualizzarlo nella storia, di misurarlo sulle controversie che avevano animato per secoli la grande cultura islamica. Essi perciò proiettavano nella loro lettura dei testi religiosi le proprie frustrazioni sociali, personali e di genere nonché il proprio senso di rivalsa; proiettavano sull’Occidente le responsabilità di un’umiliazione storica e politica che erano soprattutto interne allo stesso mondo islamico. Di qui il diffondersi di un populismo reazionario, maschilista, xenofobo e violento. Maddeb preconizzava infine una grande lotta culturale interna a quel mondo.
Istruzione senza cultura: è un fenomeno che si va estendendo da noi come negli Stati Uniti. Non solo per il disinvestimento nella scuola, ma anche grazie a internet. Grazie a internet, ciascuno si sente “imparato”, e pensa si riduca la distanza tra chi consuma sapere e chi lo produce. Grazie a internet, ciascuno può farsi un’opinione su cose che non sa, può contestare le competenze, può combattere l’autorità e il privilegio di chi sa. E’ un fenomeno che abbiamo visto affiorare, in Italia, nel caso Di Bella per la cura del cancro, nel caso Englaro, ora nella contestazione dei vaccini, e più in generale nelle polemiche contro le élites e la cultura, nel degrado demagogico della lingua e nella degenerazione in urlo dell’argomentare in pubblico. E’ un buon uso politico della meravigliosa civiltà digitale da parte della destra, che lusinga la rivalsa plebea sul sapere. E’ una rivalsa che si presume coerentemente democratica in quanto rifiuta le gerarchie del sapere, ma deforma l’idea democratica concependola come un appiattimento stazionario invece che come uno sforzo di superamento. “La Repubblica promuove…” dice la Costituzione: la democrazia ha molte cose da fare, da cambiare, ha degli obiettivi da raggiungere. Ora anche quello, pena la sua morte, di salire ad altra dimensione, perché quella nazionale, in cui è nata e in cui ha avuto vigenza, non è più all’altezza delle questioni che premono.
Il rifiuto dei vaccini sarà un fenomeno marginale, pure è ricco di indicazioni circa gli spiriti di destra dell’”istruzione senza cultura”. Come Berlusconi aveva inverato il motto “il personale è politico”, ribaltandolo nel gestire la politica a favore dei propri affari, così il rifiuto dei vaccini sembra il ribaltamento del “corpo è mio e lo gestisco io”. Nato dal femminismo, “il corpo è mio” indicava la liberazione sociale e antropologica delle donne da una subordinazione storica, mentre chi rifiuta i vaccini rifiuta la storia a favore di un presente frainteso, perché se certe malattie non sembrano adesso incombenti è grazie alla storia dei vaccini e della loro diffusione. Chi rifiuta i vaccini pretende una gestione familistica dei corpi che rifiuta, con spirito liberista, la responsabilità sociale, nello specifico la responsabilità di evitare che i propri figli non vaccinati possano diventare potatori di contagio in ambienti collettivi come la scuola. L’obliterare la storia e la memoria, il familismo liberista che esime dalle responsabilità sociali sono caratteri che la destra coerentemente vezzeggia.
Dalla controversia, pur limitata, sui vaccini emerge (come già dal caso Di Bella e dal caso Englaro) un altro tema di grande importanza nella retorica della destra: l’enfasi sul corpo. E’argomento non astratto, bensì letteralmente incarnato, in cui ciascuno si sente facilmente implicato: lo dice la pubblicità della moda, della culinaria, della cosmetica, del fitness, del calcio e dell’atletica. Cose care a tutti, e in particolare, queste ultime, agli hooligans e ai regimi totalitari. Il corpo dei capi, dei duci. Del corpo dell’altro parla la xenofobia, del corpo e dei sentori fisici propri e dell’altro parla il razzismo. Anche l’immigrato è metafora incarnata, fisica e antropomorfa, di invadenze potenti, esterne e indecifrabili.
Negli anni settanta, il movimento delle donne sollevò una critica radicale contro il pensiero e le filosofie maschili di sinistra, troppo disincarnate e astratte, troppo lontane dall’esperienza fisica della vita e del mondo. Era una critica fondata sull’esperienza decisiva, appunto, delle donne, che sanno della gestazione, dell’aborto e del parto, e più degli uomini accudiscono i corpi. Ed era una critica di sinistra, materialistica e culturale.
10.
C’è sempre da imparare dal nemico. Non dai suoi valori né dalla sua politica, ma da come segnala i problemi che incombono. Se vince è anche perché non abbiamo saputo cogliere l’ordine del giorno. Sarebbe utile decifrare quale critica alla sinistra è implicita nel successo crescente della destra.
Che cosa ci insegna il populismo? Quando costruisce l’immagine di un nemico comune (gli immigrati, le élites, l’establishment collegati in un presunto “complotto” anti-nazionale) ci insegna che da troppo tempo la sinistra ha rinunciato a identificare l’ antagonista. Senza un nemico – diceva Carl Schmitt – niente politica. Non volendo nemici sociali ma piuttosto concorrenti istituzionali, gli eredi della sinistra hanno finito per non aver più politica. Una politica socialmente connotata. Eppure gli antagonisti ci sono, si tratta di identificarli, descriverli e di proporli come tali.
Quando la destra si dimostra così capace di far convergere strati sociali in oggettivo conflitto tra loro, ci ricorda che il compito essenziale della sinistra è quello di sviluppare rapporti trasversali tra diverse componenti sociali, rivelandone le non evidenti comunanze di interessi e dando voce e rappresentanza politica ad aspirazioni potenzialmente convergenti.
Idea tradizionale, ma particolarmente difficile a fronte della disgregazione tecnica della forza lavoro. Idea ovvia; pure, gli eredi della sinistra, ossessionati dalle responsabilità di governo, si sono dimenticati della responsabilità sociale, cioè del motivo d’esistere della sinistra e del terreno del suo radicamento.
La sinistra, osservava Gramsci, se la prende prima di tutto con la sinistra. Affezionata alla “linea”, è suscettibile con chi le sembra che quella linea la faccia storta. Tanto più oggi la vocazione degli eredi della sinistra a dividersi fa il verso alla disgregazione dei soggetti sociali, disgregazione che invece dovrebbe contrastare per collegarne gli interessi e le aspirazioni verso obiettivi comuni. La destra invece ci ricorda che la lotta decisiva non si fa in orizzontale, contro i contigui, ma piuttosto in verticale: la destra la fa verso il basso, contro gli ultimi a conforto psicologico dei penultimi e a vantaggio materiale dei primi; a noi spetterebbe di farla invece verso l’alto, contro il prepotere dei poteri, a salvezza degli ultimi e a vantaggio dei penultimi. Il populismo insegna a connettere trasversalmente interessi diversi, mentre noi, eredi della sinistra, disconnettiamo, anche perché, scottati dagli esiti storici delle nostre ideologie, non ci azzardiamo più ad immaginare una società che vorremmo come orizzonte unificante delle lotte sociali e politiche.
In Italia, gli eredi della sinistra hanno lasciato un vuoto politico; il restringersi della base produttiva, dell’occupazione e del sistema previdenziale hanno lasciato un vuoto sociale. Un vuoto che grava sul risparmio delle famiglie e ricade sul lavoro di cura delle donne, richiamate a supplire privatamente al ridursi delle funzioni assistenziali dello Stato. Quando possono, le donne fanno ricadere parte del lavoro domestico sulle immigrate, “badanti” sottopagate. Tutto ciò segna una regressione culturale: privatizzazione familistica e ribadimento dei ruoli femminili tradizionali subordinati. La risacca della crisi induce frustrazione maschile, pratica e simbolica: rivalsa maschilista e reazione all’autodeterminazione della donna.
Ma i vuoti istituzionali e politici inevitabilmente si riempiono. In negativo, il vuoto è terreno favorevole alle mafie. Le mafie sono globali nella gestione del capitale finanziario accumulato, locali nei modi e nei luoghi della sua accumulazione. La forza delle mafie sta soprattutto nel loro proporsi come formazioni sociali ed economiche, sistemi di occupazione e promozione sociale, di senso di identità e appartenenza, di valori (tribali) e di forme para-istituzionali: le mafie tanto più si radicano quanto più si presentano come sistemi sociali alternativi o paralleli e quanto meno la società legale è capace di offrire lavoro, promozione e status. Se è necessaria la repressione poliziesca e giudiziaria delle mafie, il terreno strategico resta quello sociale e culturale, cioè la lotta per una società e per un mondo decenti che contrasti le attrattive del tribalismo mafioso.
Ma il vuoto lasciato dalla politica e dallo Stato non si riempie solo di mafie, deiezioni e discariche. La società non è uno stagno, è ricca di collettivi di resistenza o di supplenza, dettati dalla necessità o dalla volontà, dal gusto della partecipazione e della lotta: comitati di quartiere, di animazione culturale, iniziative dal basso, ONG, organizzazioni private su cui spesso lo Stato scarica in appalto informale funzioni su cui non gli è opportuno assumere responsabilità politiche dirette, persino nelle relazioni internazionali e nel controllo dei confini marittimi. Un’effervescenza sotto l’attacco della destra e priva di rappresentanza politica complessiva, ma terreno di ricostruzione di una sinistra necessaria. Sulla base della necessità le società di mutuo soccorso sono state luogo di formazione politica e ideale del movimento operaio ai suoi inizi. Dato come stanno le cose e di fronte al declino dello Stato sociale forse hanno qualcosa di attuale.
Riscoprire la necessità. Diabolica astuzia del mercato nella sua aspirazione all’infinito: infinito spaccio di merci per una produzione senza fine di profitto, e perciò indefinita sollecitazione di desideri che trascolorino in bisogni, di superfluo in necessità (“mai più senza”), un confondersi del valore d’uso in valore di scambio e viceversa: in questo grande teatro in cui il desiderabile si vanta come necessario, il superfluo come bisogno, tanto che si confondano l’uno con l’altro e la percezione della necessità e del bisogno si perda. Nella selva spirituale dei mercati, dove
l’homme y passe à travers des forêts de symboles
qui l’observent avec des regards familiers
la sinistra avrà da riscoprire le distinzioni tra necessità e superfluo, ma anche tra l’utile e il necessario. Perché è sotto l’idea dell’utile capitalistico che un Trump vuole nascondere il necessario di una politica dell’ambiente; e d’altra parte la scienza e l’arte si sviluppano come necessità della vita umana se più libere dal criterio immediato dell’utile.
11.
Non rilevata dal PIL, una gigantesca energia sociale fatta di minute attività di cura della vita e delle cose, di produzione di rapporti e di eventi, fa andare avanti il mondo. Come entrerà in gioco via via che le macchine sostituiranno il lavoro umano?
Ai primordi dell’industrializzazione, il movimento luddista si proponeva di sabotare le macchine che distruggevano posti di lavoro. All’inizio di questo secolo, il movimento impropriamente autodefinito “no global” non era affatto animato da spirito luddista: non si proponeva di fermare la storia per conservare lo stato della cose. Al contrario, percepiva l’affaticamento della dimensione nazionale e si proponeva come movimento globale, ma per una globalizzazione alternativa a quella capitalistica che imponeva la mercificazione sempre più estesa delle necessità umane, l’idolatria dei mercati come giudici supremi dell’efficienza. A questo, il movimento contrapponeva il tema dei beni comuni, gli ambiti della vita sociale da preservare dalle logiche di mercato e dalle privatizzazioni (l’acqua, l’ambiente, l’informazione, l’istruzione, la cultura). Temi attuali, che recano implicito un intervento politico sui sistemi redistributivi fiscali, contro l’evasione, contro il dumping fiscale e l’aberrazione dei paradisi fiscali con cui gli Stati competono nel sedurre e attrarre i capitali. I cui agenti percepirono perfettamente il sostanzioso antagonismo del movimento e ne mise in atto in modo criminale la repressione a Genova nel luglio 2001: la scuola Diaz, le torture al commissariato di Bolzaneto, l’assassinio di Giuliani, la promozione successiva dei torturatori e dei loro mandanti sotto il governo di Berlusconi. A sua volta, aiutata dalle sospette violenze dei Black Bloc, la sinistra ufficiale intese lo spirito del movimento come luddistico, come resistenza al nuovo, estremistica e lesiva dell’ordine costituito. E se dal sessantotto aveva ancora saputo trarre energie e idee per politiche di riforma, fu invece restia a cogliere criticamente dal movimento spunti per un proprio aggiornamento. Preferì al contrario concepire una propria modernizzazione nell’aderire allo spirito liberista della globalizzazione vincente: stare con chi vince per stare con la storia.
A Genova il movimento convenuto da diverse parti del mondo fu sconfitto dalla violenza criminale di Stato e disperso, e la socialdemocrazia procedette nella sua denaturazione e nel suo declino, fino all’agonia dei nostri giorni.
A quel tempo era in uso il termine “glocale”, brutta parola ma saggia per designare iniziative e movimenti condotti da soggetti collettivi in carne e ossa in luoghi e su argomenti circostanziati e insieme riferiti allo stato del mondo: un’azione locale di una coscienza globale. Di qui ripartire.
12.
I partiti populisti concepiscono la loro funzione di rappresentanza politica come rappresentazione: vi rappresento, dicono agli elettori, perchè sono la rappresentazione di quel che siete, che siamo, nella spontaneità incontrollata delle nostre pulsioni. Vi rappresento come uno specchio tutto vostro, privato, senza complessi, di fronte a cui siete liberi, liberi anche di mettervi le dita nel naso. Così Berlusconi, Salvini, Trump, Grillo. Un partito di sinistra ha invece la responsabilità di indicare non quel che siamo ma quel che potremmo essere, non “l’uomo nuovo” (infausta concezione escatologica) ma come potremmo sviluppare le nostre concrete possibilità. Non dice “siete liberi”, ma come liberarsi.
.Sarà per il mio carattere tradizionalista, ma penso che la forma partito sia tuttora necessaria. Purché sia quella dell’intellettuale collettivo. Intellettuale, perché per comprendere le possibilità storiche è necessario studiare, collettivo perché le prospettive non possono essere elaborate se non tramite la controversia nell’ambito di un’intenzione comune, e perché le concezioni complesse devono accettare il sacrificio di trafilarsi in decisioni schematiche per trasformarsi in forza politica e in azione. Un intellettuale collettivo che si nutra di una grande ambizione storica, che sappia subordinare a sé gli orizzonti troppo modesti delle ambizioni personali.